sabato 20 aprile 2024

Sorelle d’Italia…

 


Il comizio di Arianna Meloni, anzi l’evento (ora si dice così) organizzato ieri a Viterbo, ha un lato divertente.

Il lettore ricorderà quel film di Verdone, con i fratelli e i nipoti che parlavano, praticamente con la stessa voce. Arianna Meloni, sotto questo profilo è un clone di Giorgia (vale, ovviamente, anche il contrario). E la cosa fa sorridere, anche per i gesti, per l’uso delle mani, le espressioni del viso. Stesso marchio di fabbrica.

Meno divertente è la retorica militaresca, tipica della destra missina: “militante”, “esercito di uomini e donne”. Torna, in spirito, il famigerato mito di Cincinnato, evocato, tra le righe, anche da Arianna. Capace di mandare in delirio i “famosi” militanti con passaggi vecchio stile come questo: “ Abbiamo scelto di fare politica senza avere nessuna ambizione, e con questo spirito che abbiamo iniziato a fare politica”.

Nel mondo moderno in cui le élite dirigenti si muovono nell’alveo laico del controllo delle passioni fino al limite del disincanto e apprezzano l’ esercizio sistematico del dubbio, affermazioni del genere o sono false, quindi da temere, perché il bugiardo costruisce castelli in aria che poi crollano. Si pensi, visto che siamo in tema, al Mussolini degli otto milioni di baionette. Oppure sono vere, nel senso che vi si crede veramente. Qui siamo davanti al fanatico, prontissimo a non rispettare le posizioni altrui, al punto di perseguitarle. Si pensi a Hitler che proclamava, di aver dedicato la sua vita al popolo tedesco per poi produrre  macerie in serie.

C’è un dettaglio rivelatore nell’intervento di Arianna Meloni. Quando sottolinea il fatto, come si legge, che “oggi dopo tanti anni, siamo arrivati al governo della Nazione”. A nostro avviso quel “tanti anni” indica la volontà di saltare l’esperienza di Alleanza Nazionale, giudicato come un partito di traditori badogliani, che pure ha governato. E per quale ragione? Per riallacciarsi direttamente al Movimento Sociale, partito dalle saldissime radici fasciste.

Ci spieghiamo meglio. In realtà, la destra di derivazione missina ha comunque governato, come la chiamano loro, la “Nazzzione” , con Fini, Vicepresidente del Consiglio in un governo di coalizione (dal 2001 al 2006). Perché allora, ripetiamo, usare quel “dopo tanti anni”?

Breve cronistoria. L ’espulsione di Fini dal Popolo della Libertà risale al 2010, come pure la nascita del suo Futuro e Libertà. Mentre Fratelli d’Italia, che contestava il neo partito di Fini, nasce nel 2012. Giorgia Meloni lo presiede dal 2014. Insomma, non si parla di cinquant’anni come fu per Alleanza nazionale nel 1994 (primo governo di coalizione con Berlusconi e Bossi): allora sì che erano passati tanti anni.

Insomma, si gioca sull’equivoco. Si lascia che ognuno la pensi come meglio vuole: i “militanti” in buona fede (fascisti per caso) pensano al 2012-2014, quelli in cattiva fede (fascisti per scelta) al 1946. Mentre, cosa invece certa, si tagliano i ponti con il traditore Fini (1994-2014), che volente o nolente tentò di modernizzare e liberal-democratizzare la destra missina, ripetiamo, dalle salde radici fasciste.

Ovviamente, quanto abbiamo appena detto, scontenta sia gli entusiastici sostenitori in buona fede, diciamo così, delle sorelle Meloni, pronti a liquidare i nostri sospetti come frutto velenoso del malanimo, sia gli antifascisti tutti d' un pezzo che non hanno bisogno di prove per credere e che quindi ritengono le nostre indagini una fatica inutile.

Decida il lettore. Solo un’ultima notazione. Questa strategia dell’equivoco, va a saldarsi 1) con quella della rimozione ( Giorgia e ora Arianna Meloni non parlano mai di fascismo, quindi né bene né male), e 2) con una certa andatura (“allure” dicono i francesi) tecnocratica (“italiani giudicateci solo dai fatti” come usa ripetere Giorgia),  e infine 3) con il “missinismo” presentato come democratico solo perché i missini erano membri del Parlamento, sorvolando  su tutto il resto (saluti romani, picchiatori, pistolettate, tentativi golpisti, sfoggio di  idee antidemocratiche e reazionarie eccetera, eccetera).

Il che accresce  i nostri sospetti sull'invenzione di una precisa strategia. Quale? L’uso dell’afascismo, per rendere inservibile l’antifascismo, mescolato al “missinismo”, per rinsaldare le radici neofasciste, e, tocco finale, una  sapiente retorica che gioca sull’equivoco del dire e non dire allo scopo di accontentare tutti: i “famigerati” militanti di Arianna, in buona e cattiva fede, nonché gli elettori creduloni o meno, arringati sempre ieri da Giorgia in Basilicata.

Questa famiglia, in senso politico ovviamente, come fu con la famiglia Mussolini negli anni di fuoco, potrebbe di nuovo causare  la rovina dell’Italia. 

Cioè la rovina della "Nazzzione” come la chiamano le due sorelle d’Italia ( pardon, battuta troppo facile)…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.open.online/2024/04/19/arianna-meloni-comizio-viterbo-elezioni-europee-video/ .

venerdì 19 aprile 2024

L’importanza del Terzo in politica


Marcello Veneziani, su “La Verità” si lamenta del fatto che oggi non si condivida più la stessa visione della realtà, che poi sarebbe quella della Tradizione (capito, il gioco del "furbetto del quartierino" della destra?).

Invece “Il Riformista”, i cui redattori hanno letto qualche libro in più di Veneziani, propone, andando oltre, volente o nolente, i suoi interessi "terzopolisti", alcune interessanti riflessioni  sul concetto di Terzo e di terzietà in politica. 

Quindi su qualcosa che precede la visione della realtà. Qualcosa che la interseca per addomesticarla, urbanizzarla, incivilirla per così dire. Il “Terzo”, ed è nostra ferma convinzione,  è  civiltà delle buone maniere. Anche altro, ovviamente, come vedremo.

A questo proposito si legga l’ interessante sviluppo dell’idea di Terzo, spalmata (per così dire ) sue due istituzioni: Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale.

Istituzioni “centrali”, è proprio il caso di dirlo, dal punto di vista di una visione moderna e liberale della politica. Perché rinviano all’idea dell’equilibrio dei poteri, garantito, per l’appunto, da istituzioni terze rispetto a legislativo ed esecutivo, a cominciare dalla magistratura, anche costituzionale, e ovviamente dal Presidente della Repubblica.

Un’idea classica, questa dell’equilibrio, però ben sviluppata dalla modernità politica. Un’idea che rimanda alla costituzionalizzazione ottocentesca della politica di stampo liberale. Un’idea, si badi, da sempre malvista dalle destra di stampo reazionario e dalla sinistra rivoluzionaria, nemiche del “giusto mezzo” politico da perseguire attraverso l’equilibro istituzionale dei poteri.

Sul piano giuridico, tecnico, il discorso è piuttosto complesso, però dal punto di vista politico, il Terzo, istituzionalmente parlando, deve garantire il rispetto delle regole del gioco. Perciò, per capirsi subito, il progetto della destra che evoca la repubblica presidenziale, punta all’eliminazione del Terzo, riunendo, esecutivo e legislativo, in chiave maggioritaria, nelle mani di un super presidente del consiglio. Insomma, la destra è per il dualismo. Con il rischio aggiuntivo ma non secondario, per dirla tutta, di infilarsi nel monismo istituzionale, visto che si vuole anche addomesticare politicamente il giudiziario.

Pertanto, rivendicare il ruolo della terzietà istituzionale non è un passatempo da intellettuali, perché la posta in gioco si chiama libertà politica. Spazio che la destra, ormai è chiaro, vuole ridurre. Proprio in nome di una visione monista della realtà: quella, quando si dice il caso, difesa da Veneziani. Un brutto soggetto, intellettualmente parlando, che critica il “pensiero unico” progressista, per opporgli il “pensiero unico” tradizionalista.

E qui va fatta una osservazione sull’importanza, dopo di quello istituzionale, del “Terzo” politico. Per capirsi: di una forza di centro. Di “resistenza” a ogni forma di estremismo.

Facciamo un esempio, per capire subito la questione: legge 194.

La destra, con una faccia di bronzo da manuale, asserisce che introducendo nei consultori i consiglieri Pro life non si  farebbe altro che attuare ciò che prevede la legge. Il che è vero. Però qui la domanda è un’ altra: come mai fino ad oggi, nessuno vi aveva pensato? Se non – e qui cade l’asino – gruppi e gruppetti di tradizionalisti con la bava alla bocca, tesi a usare la democrazia liberale contro la democrazia liberale? E assetati di guerra civile.

Non ci si è pensato – e meno male – per una semplice ragione: l’esistenza di un centro, se non politico, culturale, diffuso però tra gli stessi parlamentari, ministri e presidenti che si sono succeduti.

Centro politico significa uso del buon senso per evitare, ad esempio, quella guerra sociale e culturale che i Pro life introdurrebbero nei consultori.

Per essere ancora più chiari: una legge introduce una cattiva idea? Allora il buon senso diffuso tra tutti i partiti, buon senso che potrebbe essere definito di centro, non tiene conto, con eleganza, buone maniere e un pizzico di sana ipocrisia, della norma Pro life. Sicché la lascia cadere in desuetudine. In questo modo si assicura la pace sociale, si vive tutti meglio, non si rischiano le guerre civili fin dentro i consultori.

Ciò spiega bene l’importanza del ruolo di equilibrio e mediazione, tra destra e sinistra, che può svolgere il centro politico. Pensiamo a un partito ago della bilancia, non solo in chiave numerica, ma capace di contrastare a colpi di buon senso diffuso l’estremismo politico, da qualsiasi parte provenga: Woke, antiWoke e compagnia cantante.

La visione comune della realtà, evocata da Veneziani, è quella di destra, e per giunta di una destra reazionaria. Ovviamente a sinistra si risponde con una visione altrettanto netta: ultra progressista a colpi di statalismo all'insegna  del “Silenzio! So io, STATO, ciò che è bene per il cittadino”.

Purtroppo, al momento in Italia, ma il discorso non riguarda solo noi, manca un Terzo, manca un centro politico, manca la capacità di mediazione. Perciò bene ha fatto “Il Riformista”, comunque stiano le cose, a sollevare la questione.

Le vie delle libertà passano per quei partiti che potrebbero essere definiti della “Resistenza” agli opposti estremismi, a ogni “movimentismo” per così dire. “Resistenza” nel senso storico della Francia, tra il 1830 e il 1848, quando un grande statista liberale come Guizot, stretto tra due fuochi, si propose dichiaratamente di “resistere” a reazionari e rivoluzionari. In parte vi riuscì. Ma il popolo non capì fino in fondo l’importanza di un centro politico e inerzialmente votò in massa per il potere plebiscitario di Napoleone III. Che rimase al potere per circa vent’anni fino alla catastrofe di Sedan.

Un particolare: Napoleone III, negli anni Sessanta, capì l’importanza del Terzo, e richiamò i liberali, centristi, al governo. Ma era troppo tardi.

Noi invece saremmo ancora in tempo. Ma dove sono liberali italiani? Al momento vediamo solo quattro o cinque professori, gelosi del loro metro di terreno, che discutono, rinchiusi nel bunker,  persino sul vero colore dei cappellini delle consorti di Hayek.

Carlo Gambescia

 

giovedì 18 aprile 2024

L’ antisemitismo negli Atenei: non c’è peggior sordo…

 

Ci si interroga sull’antisemitismo negli atenei. E soprattutto si vuole risalire alle colpe.

Intanto, il punto è che molti di coloro che a destra (perché ci sono) e sinistra rifiutano il diritto di parola a Israele, non si sentono affatto colpevoli. Anzi ritengono fermamente di essere dalla parte della ragione come le SS che sguinzagliavano, in automatico, i cani nel ghetto di Varsavia per fiutare, catturare e fucilare ebrei. Profilassi sociale. Si guardi la propaganda nazista dell’epoca, in particolare notiziari e documentari.

Insomma, a proposito dei contestatori, molto spesso violenti, non si tratta di una questione di contenuti (ciò che dicono e fanno), ma di forme del pensiero ( cognitivamente, aperte o chiuse).

Si dirà che la prendiamo troppo da lontano, e che comunque si deve fare qualcosa per favorire la libertà d’opinione negli atenei, senza opprimere nessuno, né i contestatori, né gli israeliani.

Perfetto. Se è questo che si vuole, allora ci si deve proprio interrogare sulla forma mentis del contestatore.

Abbiamo appena fatto un parallelo tra le SS e i contestatori di oggi. Qual è il minimo comune denominatore? La mente chiusa dall’ideologia che porta a imporre le proprie idee anche con la forza.

Che cosa significa mente chiusa? Per metterla sul lato psicologico è l’incapacità di guardarsi allo specchio. Di guardarsi dal di fuori, di relativizzare le proprie idee.

I nazisti e gli antisemiti, pardon ora si fanno chiamare antisionisti, ieri come oggi, puntano alla distruzione del popolo ebraico, nel quale vedono il nemico da distruggere. E tutto questo è creduto e vissuto in chiave  assiomatica.  Gente del genere neppure sa dove sia di casa il mea culpa.

Un inciso: l’antisionismo non è che la naturale prosecuzione dell’antisemitismo: se gli antisemiti nazisti negavano il diritto di esistenza dell’ebreo in quanto tale, gli antisionisti negano il diritto di esistenza dello stato-nazione ebraico, o comunque a maggioranza ebraica. La sostanza è la stessa: l’eliminazione di ogni traccia di ebraismo in forma di movimento (il mondo ebraico della diaspora), come di istituzione (lo stato di Israele). Dalla profilassi sociale (nazisti) alla profilassi geopolitica (antisionisti). Sempre di “profilassi” si tratta.

E non sia dia ascolto allo storiella dei due popoli, due stati. Per Israele non cambierebbe nulla. Anzi, con il nemico statalizzato alle porte, sarebbe ancora peggio. Il palestinese andrebbe invece modernizzato, dove necessario secolarizzato, e integrato. Ma questa è un’altra storia.

Facciamo solo un esempio di questa chiusura mentale. Si rimprovera a Israele di opprimere i palestinesi. Benissimo. Andiamo a vedere i fatti.

La popolazione israeliana, inclusa una forte minoranza araba (circa 1 milione e mezzo) è di circa 10 milioni. Per contro la popolazione dei paesi aderenti alla Lega araba ammonta a circa mezzo miliardo: 500 milioni. I palestinesi (come membri dello stato della Palestina (Cisgiordania e striscia di Gaza) sono circa 5 milioni (per inciso nel 1948 i palestinesi erano poco più di 600 mila: dov’è il genocidio del popolo palestinese?).

Gli ebrei sparsi nel mondo, quindi parliamo dei seguaci dell’ ebraismo (la religione), sono circa 15 milioni, magari alcuni con la doppia cittadinanza: però si tratta di cifre minime (i palestinesi invece sono circa 6 milioni, più i 5 già citati sopra). Per contro gli islamici nel mondo sono quasi 2 miliardi (*).

Israele  è  un' isoletta circondata da un mare di nemici.

Ora guardarsi allo specchio, da persone normali senza alcun pregiudizio, significa, capire, che non è Israele che opprime gli arabi, ma gli arabi che hanno le carte in regola, a cominciare dagli sviluppi demografici, per opprimere Israele.

Lo stato di Israele si difende come può. Se abbassasse le armi verrebbe immediatamente cancellato dalla faccia della terra. Piaccia o meno, sono rapporti di potenza. Qui l’importanza dell’appoggio, anche militare, dell’Occidente, per controbilanciare arabi e islamici, quindi anche non arabi come gli iraniani.

Rifiutare questa realtà – in pratica i fatti – significa possedere una mente chiusa, diremmo oppressa dall’ideologia. Ed è questo l’atteggiamento dei contestatori degli atenei italiani che rifiutano il diritto di parola a Israele nel nome dell’ideologia antisemita-antisionista.

Si può fare qualcosa? Certo. Difendere il diritto di parola dello Stato d’Israele e dei suoi rappresentanti a ogni livello. E soprattutto ristabilire la verità: che il cattivo non è Israele.

Purtroppo, come recita il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire…

Carlo Gambescia

 (*) Sono dati, a prescindere dai siti specializzati (Ispi, Limes ad esempio, frequentati dagli specialisti), a portata di clic su Internet per voce. Quindi tutti potrebbero facilmente documentarsi. Eppure…

mercoledì 17 aprile 2024

Rapporto sulla competitività. Mario Draghi e l’isola che non c’è

 


Mario Draghi non è un personaggio da prendere sottogamba. Come presidente della Bce e del Consiglio ha mostrato buone qualità politiche e di indipendenza decisionale. Draghi non è la marionetta di nessuno. Al contrario rappresenta la migliore espressione di una visione liberalsocialista, anche per sua stessa ammissione, della politica e dell’economia.

Il problema è che la “visione” è più socialista che liberale. Socialista – attenzione – non nel senso epico del termine ma nel senso specifico del controllo pubblico dell’economia.

Sul punto, come in ogni forma di interventismo statale, gioca un ruolo importante l’aspetto tecnocratico. Cioè di una visione che considera la democrazia rappresentativa – il sale che dà sapore al liberalismo, quello vero, storico – un fenomeno secondario, quasi privo di importanza.

Diciamo che Draghi alla discussione privilegia la decisione, ancora meglio, se quest’ultima è presa da dirigenti altamente specializzati nei rami dell’economia e della scienza.

L’idea del controllo pubblico dell’economia, coordinata in chiave europea,  verticistica e tecnocratica,  è al centro del suo annunciato Rapporto sulla competitività europea, che ieri ha anticipato nelle sue linee generali (*).

In pratica il Rapporto si muove intorno a tre idee: a) riduzione della dipendenza tecnologica ed energetica dell’Ue dal resto del mondo; b) formazione di grandi imprese a livello europeo in tutti i settori, ancora meglio se controllate dai poteri pubblici, per competere ad armi pari con il resto del mondo; c) introduzione di una specie di nuovo patto dei produttori tra sindacati e imprese, basato sulla politica dei redditi, cioè sulla concertazione tra imprenditori e sindacati, che vincola l’accrescimento dei salari alla crescita della produzione e degli utili di impresa.

In sintesi: Draghi all’offerta esterna oppone la domanda interna. Non crede nel libero mercato. Ma molto probabilmente, da buon tecnocrate interventista, non vi ha mai creduto.

Sembra di rileggere un vecchio scritto di Keynes, degli anni Trenta, dove si celebrava l’ autosufficienza o autarchia economica britannica, allora di tipo  imperiale (**).

Ovviamente Draghi, che traspone il concetto a livello europeo, non usa questo termine, non abbastanza sofisticato, ma parla, più volte, della necessità di una difesa europea della “catena di approvvigionamento”. Come qui:

«In un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica. La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze».

Draghi, da sbrigativo realista a breve termine, dà per scontata, come un tempo Keynes, la fine definitiva del laissez-faire. E punta su quello che è il fratello gemello dell’interventismo statale: il protezionismo economico e sociale.

Si dirà che Draghi non ha tutti i torti perché il barometro della politica internazionale da alcuni anni indica maltempo. Però un vero politico – ecco la differenza con il tecnocrate – non può dare come definitivi processi (di vario tipo), ancora in corso, “contingenti”, e puntare su misure economiche “permanenti”, come se non ci fosse domani (per dirla alla buona).

Di qui, al contrario, la necessità “politica”, non tecnocratica, di valutare il rischio futuro di ricorrere oggi a massicce dosi di protezionismo (le politiche contrarie all’offerta, prima ricordate); di concentrazione delle imprese (quindi scelte monopolistiche, contrarie al libero mercato); di welfarismo contrattato tra imprese e sindacati (il costoso rilancio della domanda interna, cui accennavamo).

Il problema è quello dell’esistenza di un’ isola che non c’è. Per capirsi: parliamo di misure che al momento possono apparire salvifiche, mentre in realtà possono pregiudicare l’economia europea e mondiale per almeno mezzo secolo. E qui si pensi ai guasti del protezionismo degli anni Trenta del Novecento, i cui effetti negativi si prolungarono fino agli anni Sessanta. Ma anche quello dell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Che poi dietro il protezionismo ci sia lo stato o un insieme di stati è la stessa cosa. 

Riassumendo: non esiste alcuna isola felice, separata dal mondo. Non si può separare la competitività dal libero mercato, chiudendosi in casa e gettando la chiave. Come canta Morgan? "Ho deciso di perdermi nel mondo". Ecco questo è lo spirito giusto. Non la competizione, se e quando tale,  foraggiata dallo stato e pagata cara, per ricaduta da prezzi  monopolistici, dai consumatori.

Non si tratta di un puro atto fede nel libero mercato. Il vero politico deve ragionare se non per millenni almeno per secoli. Si chiama realismo a lungo termine. E gli ultimi secoli ci dicono che il libero mercato, pur tra alti e bassi (guerre e disgrazie varie incluse), è molla di progresso e libertà. Per contro un tecnocrate, cioè un realista a breve termine, non va oltre lo studio accurato dei bilanci e la compravendita imprenditori-sindacati. Come dire? La storia neppure come accessorio, aggiunta, surplus mentale.

Qui i limiti di Draghi e delle sue idee sulla competitività europea. Idee che possono addirittura raccogliere consenso a destra, dal momento che l’interventismo pubblico, a partire dall’idea protezionista, oggi come oggi, accomuna destra e sinistra. 

Per capirsi, e restare in Italia, la tentazione interventista mette insieme, sfumature ideologiche a parte, Giorgia Meloni, Elly Schlein, Matteo Salvini, Giuseppe Conte  e perfino il "liberale" Antonio Tajani.  Sotto questo aspetto, al di là delle polemiche spicciole, Mario Draghi è ben visto dai due schieramenti.

Il che la dice lunga sul liberalismo di Mario Draghi, come pure su quello dei quadri politici italiani. Non dissimili del resto da quelli europei.

Come osservava Ortega, il conferenziere migliore è quello che dice al pubblico ciò il pubblico vuole sentirsi dire.

Carlo Gambescia

(*) Qui la versione integrale del sui discorso: https://www.adnkronos.com/economia/draghi-il-discorso-integrale-come-deve-cambiare-lue_2YqgqZph2dMWoRrMrM9Ao4 .

(**) John Maynard Keynes, Autosufficienza nazionale (1933), in Id., Come uscire dalla crisi, a cura di Pierluigi Sabbatini, Editori Laterza 1983, pp. 93-106 .

martedì 16 aprile 2024

Lo sgradito ritorno di Giovanni Gentile

 


Lo diciamo subito, senza tanti giri di parole. La mostra, che apre oggi al pubblico, su Giovanni Gentile (*), una delle colonne culturali del regime fascista e “repubblichino”, è un tributo pagato dalla destra, oggi al governo, alle sue “radici” fasciste: quelle che non “gelano mai”.

Intanto, non si capisce bene l’aggancio storico-cronologico. I 150 anni dalla nascita? No, perché Gentile nacque nel 1876. Gli 80 dalla morte? Sembra sia proprio questa la ricorrenza storica cooptata,  perché Gentile morì il 15 aprile del 1944 per mano di alcuni  partigiani fiorentini. Ma, di regola, si celebrano gli 80 anni dalla morte di un filosofo? Boh… In effetti sembra una ricorrenza  tirata per i  capelli.

Sapevamo dei 25, dei 50, dei 100. Stesso discorso per la nascita. Insomma, sembra tutto, crono-culturalmente, molto artificioso, tranne data e dinamica della morte: un attentato partigiano sotto casa. Una data, insomma, per catapultare addosso alla sinistra, in particolare quella di derivazione marxista, la responsabilità dell’uccisione politica di uno dei due grandi filosofi italiani della prima metà del Novecento,  l' altro è Benedetto Croce.

Ovviamente, si badi bene, tutto sottovoce, secondo il perfido stile omissivo della Meloni, recepito da uno dei suoi  migliori violoncelli: il Ministro della Cultura, Sangiuliano. E con l’avallo – si dia un’occhiata ai nomi del comitato scientifico – della stessa sinistra e persino di alcuni intellettuali liberali.

Così oggi vanno le cose.

Dicevamo tributo, mostra riparatrice in senso politico. Di che cosa?

Gentile fu con convinzione fascista fino all’ultimo. E la coerenza a un' idea è uno scatolone vuoto. Anche Hitler e Tamerlano furono coerenti alle proprie  idee di sterminio. Tra l'altro,  lo  erano anche i generali assiri.

Gentile fu un grande filosofo? Se lo fu, lo fu anche Croce. Solo che Croce fu antifascista. A questo proposito per capire Gentile si deve studiare Croce. Forse avrebbe avuto più senso una mostra comune dedicata ai due filosofi. Al tandem diciamo.

Qualche paletto cognitivo. Per Gentile il fascismo fu il proseguimento della Destra storica con altri mezzi: la dittatura. Per Croce, ne fu invece il tradimento, a partire dalla politica estera e religiosa. Non sono differenze da poco.

Quanto agli aspetti teorici, sia Croce che Gentile si mossero nell’alveo della distinzione di derivazione idealistica tra pensiero e azione. 

Per Gentile l’ azione era pensiero stesso, pensiero in azione insomma. Per Croce, il pensiero doveva sempre precedere l’ azione. 

Di conseguenza, Croce lavorò intorno a una teoria dei distinti in ambito del pensiero e dell’agire umano. Invece Gentile alla fusione tra pensiero e azione che si tramutò però  in  confuso attivismo, dal momento che  una volta varcato il Rubicone della distinzione tra pensiero e azione, si finisce sempre per agire senza  pensare.

Mentre in Croce, l’azione rimase nell’alveo del pensiero, ma sottoposta a  buona guardia da quest’ultimo: una appendice, soprattutto quando un filosofo desideri restare tale. Non farsi insomma condottiero politico (l'inevitabile  fine di Gentile).

Croce non era un costruttivista, sicché rifiutò in fascismo, e ruppe con Gentile, proprio mettendolo in guardia sulle pericolose derive, a sfondo utopistico, dell’attivismo politico.

In fondo la morte di Gentile fu frutto dello stesso attivismo politico fascista che vedeva nell’azione la valorizzazione del pensiero. Ovviamente nelle tragiche circostanze di Gentile si trattò di un attivismo di segno politico contrario.

Gentile in qualche misura fu vittima del suo successo nel diffondere trasversalmente nelle nuove generazioni l’azionismo, per dirla altrimenti  il costruttivismo.  Un agire frenetico che può assumere, una volta messo in secondo piano il pensiero, addirittura forme terroristiche. Come Gentile, purtroppo, provò di persona.

Come detto la deriva azionista sconfina inevitabilmente nel costruttivismo sociale.  E infatti Gentile fu un grande organizzatore, a differenza di Croce, che pure ebbe i suoi meriti: si pensi al lavoro come Ministro della Pubblica Istruzione, tra l’altro anticipò la riforma di Gentile, a quello con Laterza e alla “Critica”.

Però ecco il punto limite. Di non ritorno. Gentile, ad esempio creò da zero l’ Enciclopedia italiana, con l’Istituto, eccetera, ma come tutti sanno, scrisse “anche” la voce “Fascismo” quasi per intero (probabilmente anche la parte ufficialmente scritta da Mussolini).

E che cos’è un’ Enciclopedia per l’ azionista-costruttivista? Un corpo socialmente contundente: il punto di partenza della totale riforma sociale. Un mondo da ricostruire con il libretto delle istruzioni sottomano…

Sotto questo aspetto, l’azionismo di Gentile, andò oltre l’azionismo dei giacobini, che avevano preteso di ricostruire la Francia con in tasca - si fa per dire  - la famosa Encyclopédie  di Diderot e D’Alambert. Gentile invece fu più bravo: fece tutto da solo, Enciclopedia e riforme. Purissimo costruttivismo sociale. Da manuale quasi.

Si dice che Gentile fece collaborare all' Enciclopedia Italiana anche studiosi antifascisti, o comunque non allineati. Vero. Però la debolezza morale degli intellettuali privi di spina dorsale, di ieri e di oggi ( e qui torniamo ai nomi del comitato scientifico della mostra su Gentile), che accettarono di collaborarvi,  è il perfetto corrispettivo della magnanimità di Gentile.

Nei due casi, nel bene o nel male, sono in gioco le  doti personali, individuali se si vuole. Che  non possono essere addotte come prove a discarico del regime fascista, un’ organizzazione collettiva. Sono due dinamiche differenti: la prima rinvia alla persona, al privato; la seconda alla politica, al pubblico.

Probabilmente l’attualità di Gentile rispetto a Croce, ma non in chiave di lascito positivo, è nello statalismo gentiliano, che con i suoi pressanti  richiami allo stato etico,  trova  inevitabile  sfogo  nella pratica dello stato interventista in tutti i campi (dalla scuola all’economia), come del resto accadde con il fascismo.

In questo senso lo stato etico gentiliano intercetta e favorisce il welfarismo contemporaneo, difeso dalla destra in termini di sciovinismo welfarista (di servizi sociali riservati solo agli italiani). Una difesa condivisa anche da socialdemocratici e liberalsocialisti, ma in termini di welfare universale (italiani e migranti).

Tuttavia – ecco il minimo comune denominatore – il costruttivismo-azionismo, privilegiando il welfare, ingloba sia il fascismo, e reincarnazioni varie,  sia i suoi nemici socialdemocratici, di ieri e di oggi

Infine sono singolari due cose.

Innanzitutto il fatto che non si accenni al liberalismo macro-archico di Gentile, un liberalismo che scorge nello stato una macchina per “fabbricare” i cittadini. 

Insomma, per tornare sul punto,  il pensiero di Gentile rinviava, sì alla Destra storica, ma depurata dai motivi individualistici, che invece sono il sale del liberalismo.

Sotto questo aspetto, come già detto, per Gentile il fascismo fu la continuazione della Destra storica. Si tratta, come è chiaro, di una evidente forzatura. Però sono cose che vanno dette. 

Qui, e veniamo alla seconda singolarità, sembra non si sia capito bene che l’ultima opera di Gentile, Genesi e struttura della società, non è altro che un guazzabuglio di pietosi  sofismi, come questo:

“Dunque, libero è soltanto l’individuo nel libero Stato. O meglio, libero è l’individuo che è Stato libero, poiché lo Stato realmente, non è tra gli individui, ma nell’individuo, in quella unità di particolare e universale che è l’individuo” (**)

Una argomentazione, a dir poco  confusa, che potrebbe essere condivisa da un liberalsocialista come pure  da un nazionalsocialista. Su quest’ultimo punto, si ricordino i toni durissimi del “Discorso agli Italiani” del giugno del 1943, dove Gentile parla di “spirito luminoso della razza” (***).

Pertanto risulta improprio parlare del comunitarismo gentiliano, che non è altro che statalismo mascherato, al quale viene cambiata etichetta e rimesso in vendita.  La “comunità”, come “legge interna all’individuo”, non è altro che una specie di pre-stato “dentro” l’individuo, che dipende comunque  dallo sviluppo dello stato, perché da sola, questa  legge, puramente interiore non può reggersi. Dal momento che secondo Gentile ricadrebbe inevitabilmente nell’errore liberale dell’individuo autosufficiente (****). 

 Però il problema nei sistemi  stato-etici auspicati da Gentile è che  i "capi" e i  "duci" finiscono sempre per diventare più autosufficienti  di  tutti gli altri.

L’esistenza di un comunitarismo gentiliano resta, dispiace dirlo, per usare l’italiano aulico di Gentile,  l’ultima “speme” di un filosofo  che aveva visto cadere,  una dopo l'altra, tutte le sue illusioni politiche. Errare è umano, perseverare diabolico. Ecco,  in sintesi,  ciò che significa  lo sgradito ritorno di Gentile.

Si ricordi: il costruttivismo sfocia sempre nel nichilismo politico e sociale.  Perché, dopo aver messo in moto la macchina schiacciasassi dello stato, non è così semplice fermarla, a prescindere dal mantenimento o meno (più meno che più) delle sue titaniche promesse. La funzione sviluppa l’organo. Lo stato non è la soluzione ma il problema. Punto.

Solo un anafalbeta politologico, come Gennaro Sangiuliano, può  prendere per buono il comunitarismo di Giovanni Gentile. Sempre che sia in buona fede.

Comunque sia,  così oggi  vanno le cose.

Carlo Gambescia

(*) “SCENDERE PER STRADA. Giovanni Gentile tra cultura, istituzioni e politica”, mostra che apre al pubblico oggi martedì 16 aprile 2024 (Istituto Centrale per la Grafica, Roma, via Poli, 54). Si veda qui: https://www.beniculturali.it/comunicato/26195 .

(**) G. Gentile, Genesi e struttura della società, Sansoni, 1975, p. 66.

(***) Qui: http://bibliotecafascista.blogspot.com/2012/03/discorso-agli-italiani-24-giugno-1943.html .

(****) Giovanni Gentile, Genesi e struttura della società, cit., pp. 13-17 .

lunedì 15 aprile 2024

Israele, “Si vis pacem, para bellum”

 


L’immagine di copertina, dei missili-cetrioli, quindi innocui, è ripresa dalla pagina Fb di Roberto Della Rocca, un medico che vive in Israele, membro del Meretz, partito di ispirazione socialdemocratica e dalle idealità laiche (*).

I mass media arabi di ispirazione sunnita ironizzano sulle capacità militari dell’Iran. Sempre Roberto Della Rocca, in un’ intervista all’agenzia Adnkronos, racconta, per il dopo droni e missili, di balli in spiaggia e di un clima rilassato (**).

Chiunque conosca la storia dello stato d’Israele, dalla sua rifondazione, conosce benissimo le capacità morali di resistenza di questo popolo. Per non parlare di quel meraviglioso istinto di conservazione che ha favorito la resistenza del sostrato ebraico nella diaspora perfino dinanzi a una prova inenarrabile come la Shoah.

Per un laico e per chiunque rifiuti spiegazioni di tipo esclusivamente religioso, esiste veramente qualcosa di inspiegabile alla radice di una psicologia resistenziale che, a nostro modestissimo avviso, non ha eguali sociologici nella storia umana, per qualità e quantità, o vitalità se si preferisce.

Però – consiglio non richiesto – non abbasseremmo la guardia. Che i Sunniti ironizzino sugli Sciiti significa solo una cosa: che si ironizza sui mezzi, scarsi, usati dagli Sciiti per annientare Israele, non sui fini: l’annientamento.

La recente vicenda terroristica dello “Stato Islamico” di ispirazione sunnita prova che per gli uni e per gli altri, almeno sul piano delle potenziali derive terroristiche, il nemico principale resta Israele. Almeno fino a prova contraria.

Non abbassare la guardia non significa però rinunciare alla possibilità di ragionare sulla pace con chiunque mostri moderazione all’interno del composito mondo politico musulmano.
 

Non siamo specialisti di politica medio-orientale e neppure crediamo nella ricomposizione pacifica in tempi brevi della questione. La strada della pacificazione è lunghissima. Però mai rinunciarvi.

Un punto però vorremmo evidenziare. A nostro avviso fondamentale, pregiudiziale a qualsiasi processo di pace.

Facciamo un passo indietro. Nell’Ottocento lo zar Nicola II definì felicemente l’Impero ottomano, allora in netta decomposizione politica, il “grande malato d’Europa” (detto per inciso: “Signora mia, anche gli ‘zar’ di oggi non sono più gli zar di una volta”…).

L’Impero ottomano era giustamente dipinto come specie di grande vecchio decrepito, dai maestosi lombi debordanti lo scricchiolante trono che li sorreggeva. Alleatosi con gli Imperi centrali nella Grande Guerra, ne pagò le conseguenze: i trattati di pace sottoposero l’Impero ottomano a una drastica cura dimagrante. Fu ridotto più o meno alle dimensioni della Turchia attuale.

Oggi, alla luce della crisi medio-orientale, esiste un grande malato? Se esiste non è di sicuro Israele come vogliono far credere i suoi nemici, dalle varie scuole politiche rosso-bruniste agli stati come l’Iran.

Chi è allora il grande malato? L’islam politico. Diviso in modo talvolta pulviscolare per frammenti, fedi e confessioni, incapace di andare oltre la minaccia e spesso la realizzazione terroristica. Detto altrimenti: talvolta piovono “cetrioli”, talaltra no.

La malattia si chiama rifiuto della modernizzazione culturale, ancora prima che tecnologica.
In pratica si tratta dello stesso problema vissuto a suo tempo dal decadente Impero ottomano. Si compravano dall’Europa i cannoni, senza capire l’importanza del burro culturale. E soprattutto della democrazia liberale.

Lo stesso Mustafa Kemal Atatürk, l’intelligente padre della modernizzazione turca, grande militare e politico europeizzante, non capì fino in fondo l’importanza della modernizzazione politico-culturale. In particolare delle istituzioni politiche. E la Turchia, nonostante tutto, ancora ne paga le conseguenze.

Però non si deve essere pessimisti. Per il grande malato medio-orientale del XXI secolo, l’Islam, non sarà facile modernizzarsi, semplificando: puntare su cannoni e burro al tempo stesso. Anzi, sul più burro, meno cannoni. Però bisogna piangere con un occhio solo. Nulla va escluso. La modernità ha un fascino al quale, alla lunga, non è facile sottrarsi. La banale metafora del bicchiere, come per lancette di un barometro, deve volgere verso il mezzo pieno.

Con giudizio però. Perché, nello stato di incertezza, comunque prevalente, Israele, deve tutelarsi.

In parole povere, difendersi con tutte le sue forze.

Pensarla come quei Romani, al cui assedio, Masada, durante la Prima guerra giudaica, si oppose eroicamente, pur soccombendo: “Si vis pacem, para bellum”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.facebook.com/photo/? fbid=955020529956561&set=a.377230277735592&locale=it_IT .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/israele-iran-medico-italiano-a-tel-aviv-balli-in-spiaggia-dopo-notte-di-tensione-video_5VjZ717H01id5nIYZzKRZU .